La frutta non ha più il sapore di prima
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del Mercato della Terra di FIESOLE
– di Leonardo Galli
“La frutta non ha più il sapore di prima” si sente dire spesso.
È un’opinione condivisa da molte persone e deriva in parte da un certo effetto nostalgia, che riguarda molti altri alimenti che si ritiene fossero più gustosi in passato. Ci sono però diversi motivi reali per cui si percepisce meno sapore.
Prima potevamo mangiare frutta e verdura di stagione, adesso la vogliamo anche fuori stagione.
I sistemi di produzione intensiva, poi, hanno influito sull’aroma: più un frutto o una verdura sono grandi e belli esteticamente, meno intenso sarà il loro sapore e ridotta sarà la presenza di sostanze nutritive.
Proprio per far fronte a una domanda in rapida crescita di cibi anche fuori stagione, in campo agricolo-industriale sono state create varietà ibride per garantire una resa maggiore e un aspetto più uniforme.
A discapito del gusto. Per renderci conto della situazione, basti considerare che in poco più di un secolo circa il 75% della diversità genetica delle piante coltivate si è persa a favore di poche varietà ad alta produttività.
Sul sapore, l’aroma e la consistenza dei prodotti influiscono naturalmente anche le modalità di raccolta, conservazione e distribuzione. Nella maggior parte dei casi consumiamo frutta e verdura raccolte quando sono ancora acerbe, in modo che raggiungano il giusto stato di maturazione nei tempi necessari per lo smistamento, il trasporto e la vendita.
Per evitare di incorrere in errori, oltre a conoscere la stagionalità, è utile sapere come avviene la maturazione dei diversi tipi di frutta.
Vuoi ridurre l’impronta di carbonio della tua alimentazione?
Mangiare prodotti di provenienza locale è una raccomandazione comune in tema di sostenibilità, ma non è l’unica davvero efficace in termini di impatto ambientale. E’ altresì rilevante la scelta di cosa mangiare.
Gli alimenti di origine animale tendono ad avere un’impronta più elevata rispetto a quelli di origine vegetale: per esempio, produrre un Kg di manzo emette 60 chilogrammi di gas serra CO2 equivalente, mentre per esempio i piselli emettono solo 1 chilogrammo di CO2 equivalente per Kg di prodotto.
La maggior parte delle emissioni del sistema alimentare sono originate dal cambiamento di uso del suolo, dall’utilizzo di fertilizzanti, dall’alimentazione e dalla digestione dei bovini. Per la maggior parte dei prodotti alimentari, anche il trasporto rappresenta una significativa percentuale delle emissioni. Per ridurre l’impronta di carbonio della propria dieta occorre evitare o ridurre la carne e scegliere prodotti locali.
In Italia, la percentuale dei vegetariani è in aumento: secondo i dati elaborati dal Gruppo Prodotti a Base Vegetale di Unione Italiana Food, resi noti in occasione della Giornata Mondiale dei Vegetariani del 1° ottobre, la percentuale di italiani che si dichiarano vegetariani nel 2024 è il 7,2 % della popolazione, contro il 4,2% del 2023.
In particolare, nell’ultimo anno, l’82 % dei 17-35enni sostiene di aver adottato o di voler adottare in futuro una dieta prevalentemente vegetale.
E la motivazione, per 6 giovani su 10, è la sostenibilità.
Etichette sui prodotti agroalimentari: distinguere, capire ed elaborare le informazioni
L’informazione sui prodotti alimentari non è mai stata così centrale nel dibattito sul cibo come negli ultimi anni. La necessità di informare i consumatori sulle caratteristiche delle proposte, è diventata una delle attività principali delle aziende del settore agroalimentare.
Purtroppo, molto spesso il confine tra informazione e marketing è molto sfumato, fino a rimanere indefinito al punto che le etichette dei prodotti, ovvero la prima interfaccia tra produttori e consumatori, sono sede di informazioni fuorvianti se non proprio di una vera e propria costruzione narrativa, che si astrae dal significato originale di informazione asettica, per divenire luogo di storytelling.
La necessità di attrarre una platea di consumatori sempre più ampia stimola le aziende a creare aspettative e bisogni, soprattutto in termini di qualità organolettiche, salutistiche e territoriali, che sovente non corrispondono alle reali caratteristiche dei prodotti in questione.
Questi aspetti sono diventati fondamentali nello sviluppo delle campagne di vendita, peccato che risiedano nel luogo sbagliato: le etichette.
L’assenza di una misurazione reale del rapporto tra informazione ricercata e vendite ha stimolato la nascita, nel 2016, dell’Osservatorio Immagino GS1 Italy, che con i suoi report semestrali analizza i comportamenti dei consumatori, partendo dalle informazioni presenti sulle etichette di 139.302 prodotti che rappresentano più dell’80% del giro d’affari della Grande Distribuzione Organizzata in Italia.
La rappresentazione fornita da queste analisi, rappresenta un vero e proprio trattato di sociologia sui comportamenti e sui fenomeni di consumo tipici del nostro paese.
I dati forniti dall’ultimo Report confermano, qualora ce ne fosse ulteriore bisogno, che le “rivendicazioni” riferite al “Made in Italy” (prodotto in Italia”, “100% italiano”, “solo ingredienti italiani” o il nome della regione di riferimento) e le indicazioni geografiche europee (Dop, Igp, Doc, Docg), sono i più ricercati per stimolare le volontà di acquisto nel nostro Paese.
L’analisi realizzata dall’Osservatorio fornisce a questo proposito delle indicazioni molto interessanti, sottolineando una dicotomia tra valori e volumi. In particolare è abbastanza significativa la divaricazione tra il calo dei volumi per il “prodotto in Italia” e, di contro, l’aumento delle vendite per i prodotti a denominazione Dop (Denominazione di origine protetta), gli unici ad aver chiuso il 2023 con numeri in crescita rispetto all’anno precedente.
Questo andamento divergente è sintomatico del calo di fiducia di un’industria agroalimentare che speculando sull’appeal del Made in Italy, non riesce più a penetrare il mercato come un tempo.
Si potrebbero fare moltissimi esempi su questo tipo di mistificazioni peraltro assolutamente legali; basti pensare al caso dei pomodori pelati ‘prodotti in Italia’, quando c’è la grande probabilità che la materia prima arrivi dalla Cina sotto forma di doppio e triplo concentrato e che con l’aggiunta di acqua e/o di sale, dia origine ad un prodotto “Made in Italy”.
La conferma di questo disagio viene dal già citato incremento delle vendite dei prodotti con indicazioni geografiche europee, quasi a significare di un maggiore controllo che ne certifichi caratteristiche e luogo di provenienza, anche qui tutte da dimostrare.
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