
Cibi Ultra Processati
NEWSLETTER 006
del Mercato della Terra di FIESOLE
– Contributi di: Leonardo Galli Silvia Mantovani Alessandro Schena
Il cibo è considerato non processato o minimamente processato quando si presenta integro, così come è presente in natura o con solo pochi cambiamenti rispetto al suo stato originario, con piccole modifiche magari effettuate per renderlo adatto al consumo umano.
La classificazione NOVA, stabilita da un gruppo di studio brasiliano, definisce le lavorazioni come “i processi fisici, chimici e biologici che interessano i vari alimenti una volta che siano separati dalla natura e prima che siano consumati o utilizzati nella preparazione di piatti.”
Per Cibi ultra-processati (CUP) si intendono quindi alimenti e bevande industriali con più ingredienti, spesso con eccesso di zuccheri, sali, grassi e additivi vari, sottoposti a vari trattamenti fisici e/o chimici: bevande zuccherate, prodotti da forno preconfezionati, creme spalmabili, piatti preconfezionati, hamburger, hot dogs e patatine fritte, etc.
Fanno parte dei CUP anche prodotti apparentemente insospettabili, come fette biscottate, alcuni cereali per la colazione, cracker e yogurt alla frutta.
È innegabile che la gran parte dei cibi ultraprocessati sono saporiti e piacevoli al palato, veloci da preparare e si conservano a lungo e spesso aiutano la “fatica” del cucinare a casa perché sono alimenti confezionati e pronti per essere riscaldati o consumati direttamente, frutto di ripetute lavorazioni industriali.
Riconoscere tali alimenti non è sempre facile, ma leggere l’etichetta riportata sulla confezione può essere di grande aiuto: se un cibo non è stato processato, l’unico ingrediente è in genere l’alimento stesso (per esempio: carota o mela). Se invece la lista degli ingredienti si allunga, aumenta anche la probabilità che tale alimento sia stato lavorato o ultralavorato.
Gli alimenti ultraprocessati rappresentano una parte importante e crescente dell’offerta alimentare mondiale. Studi recenti hanno riportato che questi rappresentano una percentuale significativa, pari a circa il 50-60% dell’apporto energetico nella dieta abituale del consumatore medio statunitense, canadese o britannico.
L’Italia nonostante una tradizionale abitudine alimentari più salutistica si sta allineando agli altri Paesi con la progressiva omologazione delle nostre abitudini alimentari e, in particolare nelle fasce più deboli della popolazione, il consumo di alimenti ultraprocessati è in costante aumento.
Questi alimenti sono in genere ricchi di zuccheri aggiunti, grassi e amido raffinato che alterano la composizione del microbiota intestinale, ovvero i microrganismi che colonizzano il nostro intestino, contribuendo tra l’altro all’aumento di peso e all’obesità.
Un’enorme mole di ricerche è ormai stata pubblicata relativamente all’associazione tra il progressivo aumento della proporzione di CUP nella dieta e vari tipi di danni alla salute. Una recente revisione sistematica della letteratura ha identificato questa associazione per ben 32 condizioni patologiche, inoltre, ci sono forti indizi che i CUP possano creare dipendenza, con gli stessi meccanismi di sostanze classificate come droghe, a cominciare dallo zucchero e dall’alcol. Questo principalmente a causa degli esaltatori di sapidità (es. glutammati)
Uno studio molto interessante (trial randomizzato), a conferma del ruolo dell’ultra-processamento dei cibi, è stato realizzato nel 2019 mettendo a confronto il consumo di una dieta a base di CUP (gruppo intervento) ed una senza CUP (gruppo di controllo). Le due diete erano ben bilanciate in termini di calorie totali, fibre, macro- e micro-nutrienti. Da notare che la dieta CUP aveva un costo di circa 100 dollari a settimana, mentre quella non-CUP ne costava 150.
I risultati mostrano che i soggetti del gruppo di intervento, rispetto a quelli del gruppo di controllo, assumevano in media circa 500 kilocalorie in più al giorno e sono pertanto aumentati di peso: quasi un kg in due settimane, mentre i soggetti del gruppo di controllo perdevano quasi un kg. Secondo gli autori, l’associazione tra assunzione di CUP e aumento del consumo di calorie e del peso è di tipo causale e sembra essere spiegata dal fatto che i CUP sono molto più gustosi dei cibi non-CUP, grazie alla presenza di esaltatori del sapore tra i numerosi ingredienti industriali, oltre che dalla loro maggiore densità energetica.
La quota di questi cibi nella dieta del cittadino medio mostra un trend in continuo aumento. In USA e Regno Unito si avvicina al 60%. In Germania, Australia e Svezia, siamo attorno al 40%. Negli USA, tra il 1999 e il 2018, la percentuale di bambini e giovani tra 2 e 19 anni con una dieta a base di CUP è passata dal 61% al 67%. L’aumento, pur a bassi livelli, si osserva anche in paesi con una forte tradizione culinaria, ma in rapida transizione verso uno stile di vita “occidentale”.
L’Italia non fa eccezione, anche se la sua percentuale è ancora tra le più basse in Europa, attorno al 17% negli adulti, ma purtroppo già al 26% nei bambini tra 5 e 19 anni di età.
A livello globale, in tutti i continenti, le vendite di CUP vanno a gonfie vele e sono in continuo aumento, per la gioia delle multinazionali di Big Food. Le strategie delle multinazionali alimentari per aumentare il consumo sono le stesse utilizzate in passato dalle multinazionali del tabacco. Azioni di interferenza su governi ed istituzioni come inquinamento delle prove scientifiche, infiltrazione a tutti i livelli della comunità scientifica e della società civile, ostacoli e freni a leggi e regolamenti, minacce di ritorsioni soprattutto negli investimenti e sulla forza lavoro. Oltre ad attività di marketing e pubblicità ingannevole, sempre meno convenzionali e sempre più digitali.
Per contrastare il consumo, spesso inconsapevole, di questi prodotti occorre diffondere e sostenere l’informazione con la filosofia di organizzazioni come Slow Food sostenendo le attività, svolte anche localmente come il Mercato della Terra, per promuovere modelli di produzione, trasformazione e consumo il più possibile sostenibili e sani sia per la salute individuale sia per il pianeta.
La Biblioteca del Lievito Madre
A Sankt-Vith, Vallonia, Belgio, c’è un posto molto particolare. È la Biblioteca mondiale del Lievito Madre del Center for Bread Flavour «Puratos». Qui, dal 2013 a oggi, sono stati raccolti, analizzati, conservati e catalogati 137 lieviti madre provenienti da 25 Paesi e classificati 700 tipi di lievito e 1.500 varietà di batteri dell’acido lattico, gli inibitori delle muffe, che nella storia millenaria del pane in tutto il Mediterraneo (sponda europea, africana e mediorientale) fanno la differenza tra i pani freschi e artigianali e i pani industriali. Il lavoro dell’équipe guidata da Karl De Smedt e dal professor Marco Gobbetti delle Università di Bolzano e di Bari, punta a «salvaguardare la biodiversità del lievito madre e preservare per gli anni a venire questo inestimabile patrimonio, poiché il futuro del pane risiede nel suo passato».
Pochi sanno però che il primo lievito madre entrato in questa Biblioteca, dove tutt’ora occupa il posto d’onore, è quello del pane di Altamura. Un pane che è stato anche il primo in Europa, nel 2003, a ottenere il marchio Dop, la Denominazione di origine protetta. Il 6 novembre 2013 il lievito madre del pane di Altamura venne accolto nella Biblioteca di Sankt-Vith, dove da allora è conservato a 4 gradi centigradi e ogni due mesi rinfrescato con farina originale.
Il pane Dop di Altamura è un prodotto molto preciso, che non può essere scambiato per nessun altro pane «simile» o «del tipo», poiché, dice l’ottimo «disciplinare» approvato dall’Unione europea, è ottenuto «mediante l’antico sistema di lavorazione (lievito madre o pasta acida, sale marino, acqua) e l’impiego di semole rimacinate delle varietà di grano duro Appulo, Arcangelo, Simeto da sole e Duilio, coltivate nei territori della Murgia nordoccidentale, tra Altamura, Gravina in Puglia, Poggiorsini, Spinazzola e Minervino Murge». Se lo si produce con il grano canadese, russo, argentino o ucraino, magari aggiungendovi lievito di birra, sarà lo stesso un buon pane, ma non sarà pane Dop.
La differenza è sostanziale anche dal punto vista alimentare e nutrizionale. Lo spiega bene il professor Francesco Schittulli, senologo e oncologo, presidente nazionale della Lilt (Lega italiana lotta ai tumori): «La tracciabilità nella catena alimentare è essenziale. Una alimentazione sana e corretta, da sola, abbatterebbe il 35% dei casi di cancro. E su questo fronte il valore del pane fresco e artigianale, cioè privo di additivi come avviene per le merendine confezionate e per il pane precotto e surgelato, è immenso». Nella realtà però sembra che la tracciabilità del denaro (della gente comune) interessi più di quella del pane e del grano scaricato nei porti italiani dalle navi provenienti dall’estero. E vane risultano le periodiche proteste dei coltivatori, i cui grani, compresi quelli ben più proteici delle quattro varietà indicate dal disciplinare del pane Dop di Altamura, vengono deprezzati e restano invenduti nei silos. Mentre quelli esteri si riesce facilmente a mescolarli alle varietà autoctone e a spacciarli per «italiani».
Il maestro panettiere del primo lievito madre di Sankt-Vith, Peppino Barile: «In questi ventidue anni — racconta — il marchio Dop è stato tradito e abusato, i panifici di Altamura si sono dimezzati da 80 a 40 e il Consorzio, ormai solo nominalmente composto da appena una decina di soci, è diventato il feudo della Oropan Spa, la più grande industria panificatrice del luogo (47 milioni di fatturato annuo, ndr), il cui amministratore delegato è anche presidente del Consorzio».
«Il mondo ha bisogno di luoghi sicuri in cui conservare le sue cose preziose», dice la frase che campeggia sul lievito madre di Altamura nella Biblioteca di Sankt-Vith. Luoghi sicuri, certo. Ma anche amore per la propria storia, la propria terra, e istituzioni che non guardino altrove.
Anche la scelta di un alimento semplice, come il pane, deve essere guidata dalla conoscenza di chi lo produce, come lo produce e quale storia nasconde ogni fetta.
Le etichette degli alimenti: non solo un elenco di ingredienti
Le etichette dei prodotti alimentari indicano oltre agli ingredienti, anche i cosiddetti claim salutistici e nutrizionali. Non sempre però queste indicazioni sono recepite in maniera corretta dal consumatore e possono risultare talvolta controproducenti, oltre che inutili. In alcuni casi, infatti, i produttori cercano di sfruttare i possibili errori di interpretazione. La comprensione delle scritte presenti sulla confezione è un fenomeno più complesso di quanto si potrebbe pensare, perché in essa entrano in gioco anche processi cognitivi indiretti, non sempre immediati, e pregiudizi di interpretazione. Le persone sono talvolta portate ad attribuire a una certa caratteristica un significato diverso da quello reale e, non di rado, più ampio. È il caso, in particolare, di affermazioni come “a ridotto contenuto di grassi” o “magro” che, a causa appunto di un’associazione mentale indiretta, secondo molti significa anche che quel prodotto contiene pochi zuccheri, anche se non è quasi mai così. Molti consumatori credono che un prodotto con la dicitura ‘magro’, oltre a contenere pochi grassi, abbia anche pochi zuccheri. Questo è stato confermato da uno studio condotto dall’Università Martin Lutero di Halle-Wittenberg, in Germania, che ha selezionato 760 persone per partecipare a tre diversi esperimenti che avevano come oggetto una tipologia di prodotto di largo consumo come lo yogurt. Il primo test era molto semplice: i partecipanti dovevano fornire una valutazione, in una scala che andava da uno a sette, del contenuto calorico, di grassi e di zuccheri di alcuni yogurt con varie scritte. Inoltre, dovevano dire se avrebbero comprato o meno il prodotto mostrato. Come atteso, tutti hanno stimato correttamente il minor contenuto calorico dei vasetti sui quali era stato scritto ‘a basso tenore di grassi’. Tuttavia, quasi tutti pensavano che quel tipo di yogurt fosse anche a basso contenuto di zuccheri, rispetto a quello normale, anche se nessuna scritta lasciava intendere una cosa del genere e nonostante che il contenuto di grassi, di solito, non abbia nulla a che vedere con quello di zuccheri, che resta immutato quando i grassi diminuiscono. |
Nel secondo e nel terzo set di test, ai partecipanti sono state mostrate immagini di vasetti con il claim del basso contenuto di grassi ma anche con etichette nutrizionali complete. In questo caso, la stima della quantità di zucchero e calorie è stata corretta, ma quando si è passati alle intenzioni di acquisto, la propensione, in chi aveva potuto leggere le tabelle nutrizionali, è stata decisamente inferiore, anche quando c’era scritto che il prodotto aveva pochi grassi. Ciò dimostra che, quando l’informazione è completa, non c’è alcun fraintendimento. Analogamente, a un gruppo di partecipanti sono stati mostrati yogurt con pochi grassi, ma senza la scritta ‘low fat’ e la propensione all’acquisto non è cambiata. Tutto ciò mostra le insidie associate ai possibili tipi di rappresentazione grafica delle informazioni nutrizionali e gli errori nei quali i consumatori possono essere indotti a cadere. Come noto, commentano gli autori, in Europa ve ne sono diverse, alcune delle quali chiare, come il Nutri-Score, ma altre molto meno, come il NutrInform Battery italiano. Per questo si attende con una certa impazienza la decisione della Commissione Europea, prevista entro la fine dell’anno, ma rallentata dall’opposizione italiana all’adozione del Nutri-Score. Oltre al metodo italiano, nel Regno Unito c’è un sistema a semaforo, che rappresenta una sorta di intermedio tra il Nutri-Score e la batteria italiana. Disporre di un sistema europeo unico e chiaro, non ambiguo, sarebbe di grande aiuto per i consumatori, che potrebbero finalmente scegliere in base a informazioni basate sulla scienza, riportate correttamente e impossibili da fraintendere. |
Buone pratiche: aree verdi a sfalcio ridotto
Ridurre gli sfalci (in primavera-estate dopo fioritura e nel tardo autunno prima dell’inverno) in alcune aree dei parchi cittadini, consente alle piante erbacee che compongono il prato di completare il loro ciclo vegetativo arrivando alla fioritura e alla produzione di seme, garantendo così il mantenimento di una comunità vegetale ricca e variegata che andrà a popolare il prato l’anno successivo. Si aiuta inoltre il suolo ad assorbire più acqua piovana e Co2, si contribuisce al contrasto delle isole di calore, si aumenta la biodiversità anche a beneficio di api e insetti impollinatori. Se vediamo quindi che l’erba in alcune aree è un po’ più alta non si tratta di “degrado”, disordine o inadempienza, ma di un diverso modo di gestione degli spazi verdi che attraverso la riduzione dei tagli dei prati permette di incrementarne il valore eco-sistemico. Una buona pratica questa che si sta diffondendo in molti Comuni italiani, fra i quali anche Fiesole, che può essere facilmente adottata anche dai privati. |
I cibi del mese:
Verdure
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agretti. barbabietole, bietola, broccoli, carciofi, cavolini di Bruxelles, cavolfiori, cavoli vari, carote, cicoria, cipolle, fagioli, finocchi, lattuga, lenticchia, indivia. porro, rabarbaro, radicchio, rafano, rape, ravanelli, scalogno, scarola, sedano, spinaci, tarassaco, topinambur.
Frutta
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arance, avocado, kiwi, mele, mandarancio, mandarini, limoni, pere, pompelmi.
Pesce
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acciuga, cefalo, merluzzo, nasello, sardina, soiola, tonno, triglia
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